Il digitale ai tempi del coronavirus

Il digitale ai tempi del coronavirus

Potrebbe andare peggio, potrebbe non funzionare internet.

Recita così il meme di Igor, icona del film Frankenstein Junior, che circola in questi giorni sui social. Come dargli torto, d’altronde? Come saremmo messi, in questo periodo di quarantena collettiva, se per qualche motivo internet avesse smesso di tenerci connessi gli uni con gli altri?

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Senza presentarsi, senza chiedere permesso, il coronavirus si è introdotto nella nostra società fino a scuoterne le fondamenta. Tutti noi abbiamo perso qualcosa, chi più e chi meno, e ora dobbiamo stringere i denti.

Prepararci, probabilmente, a un futuro diverso.

Una cosa è certa, però. Abbiamo imparato il valore delle cose. E come sempre succede, proprio nel momento in cui ci vengono portate via.

La libertà è la prima cosa a cui abbiamo dovuto rinunciare: ci è stata sfilata via da sotto il naso così rapidamente che quasi non abbiamo avuto il tempo di metabolizzare il fatto. Di solito sono le dittature o le guerre a darle il colpo di grazia, ma questa volta è bastato un microrganismo subdolo e invisibile.

La libertà è il nostro ossigeno. La libertà di muoversi. Di uscire. Di incontrare chi vogliamo. Di pianificare le nostre giornate e costruire progetti il futuro. Anche lei sta soffocando dietro una mascherina che non vediamo l’ora di toglierci di dosso.

L’altra cosa che abbiamo riscoperto è la nostra identità “analogica”.

Pensavamo che il digitale avesse conquistato tutto, che fossimo ormai un tutt’uno con i nostri smartphone e i nostri tablet, social-addicted, Netflix-addicted, connessi 24 ore al giorno con i nostri amici virtuali e i nostri contenuti preferiti, condannati a un perenne cazzeggio tra un’applicazione e l’altra. E ora che molti di noi hanno la possibilità di vivere il digitale in totale immersione, giocare ai videogame senza interruzioni, abbuffarsi di serie TV senza rimorsi, sentire in videoconferenza tutte quelle persone che non avevamo mai tempo di incontrare, proprio ora che abbiamo mille opportunità da acchiappare al volo, ecco che ci sentiamo smarriti, incompleti. Boccheggiamo come pesci in un acquario angusto e intorbidito a cui hanno smesso di cambiare l’acqua. Ci manca qualcosa, forse ci manca tutto.

Ci siamo resi conto di essere ancora creature in carne e ossa, e abbiamo bisogno di sgranchirci le gambe, stringere la mano a qualcuno, vedere il mondo con i nostri occhi, senza filtri, senza barriere in mezzo.

Ci siamo resi conto che il digitale può aiutare enormemente le nostre vite, ma non rimpiazzarle. E quelle app così comode e immediate, a portata di polpastrelli, ora assomigliano quasi a dei muri che non possiamo infrangere.

Ci siamo resi conto che quei volti e quelle voci dall’altra parte di Skype, altro non sono che delle riproduzioni. Pur non essendo fedeli al 100%, ci siamo abituati, quasi sempre ci bastano, ma ora no, fremiamo dalla voglia di riconnetterci con l’originale, con quel nucleo unico, autentico e palpitante delle persone a noi care.

Infine, è bastato un virus per farci comprendere come questo gigante che è internet non può sostenere tutti i nostri bisogni, tutte le nostre bulimie, tutta la nostra fame di esserci e connetterci. Anche questa volta abbiamo dato per scontato i suoi limiti, le sue fragilità.

Il digitale avrebbe dovuto salvarci, ma al momento ci sta solo tenendo a galla.

Scritto da
Gianluca Riboni
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Gianluca Riboni

Pensatore e capo tribù NAZAV, personal trainer non convenzionale, ambasciatore dello yoga e della risata, scrittore e blogger incompreso. Scrivo quello che mi passa la testa, nella speranza di lasciare un segno su questo pianeta. Sempre in Arial 11.

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