Scrivi che ti passa

Scrivi che ti passa

Un giorno, da ragazzino, mentre cercavo di attraversare indenne le tipiche burrasche adolescenziali, sentii il bisogno impellente di mettermi a scrivere. La sensazione fu talmente piacevole, e liberatoria, che ben presto cominciò a scapparmi un po’ la mano. Poche paginette buttate lì per noia si trasformarono, nel giro di poco tempo, in tomi indigeribili e maledettamente densi di inchiostro.

Dei miei fallimenti da scrittore ne ho già parlato, ma quello che non sapevo, allora, era il proprio motivo che mi spinse ad avventurarmi in un’impresa così oggettivamente frustrante e velleitaria, quella di scrivere in un paese che, di fatto, non legge.

La verità è che avevo bisogno di scrivere per me, per non impazzire. Per tirare fuori, anche se in forma romanzata e inutilmente complicata, tutto quello che mi stava consumando da dentro.

Oggi, a distanza di anni, scopro che la scrittura, nel corso del tempo, è stata proprio oggetto di studio da parte della scienza, allo scopo di indagare i suoi presunti effetti terapeutici. Ovvio, qui non stiamo parlando di persone che trascorrono le notti insonni a imbastire romanzi e saghe fantasy (perché quei pazzi, per fortuna, rimangono una stretta minoranza), ma, molto più banalmente, di quella che viene definita scrittura espressiva. Tradotto: scrivere per elaborare le nostre esperienze e i nostri stati d’animo come faremmo tenendo un diario.

Tutto inizia, a quanto pare, da questo studio condotto negli anni Novanta da Stefanie Spera, Eric Buhrfeind e James Pennebaker. Qui vennero usati come “cavie” degli ingegneri (chissà perché proprio degli ingegneri) che avevano appena perso il posto di lavoro. Il campione venne diviso in tre gruppi: mentre il primo non doveva fare una mazza, gli altri due, per cinque giorni consecutivi, dovevano scrivere ogni giorno qualcosa. Un gruppo era chiamato a esprimere i propri pensieri e sentimenti sulla loro attuale situazione, mentre l’altro doveva scrivere su un argomento non correlato direttamente alla loro esperienza.

Per farla breve, dopo tre mesi, venne fuori che le persone che avevano tenuto questa sorta di diario personale avevano trovato un nuovo lavoro nel 26% dei casi, mentre il gruppo di controllo, quello che non aveva fatto nulla di specifico, soltanto nel 5%. Dopo otto mesi, questo dato era salito al 52% e al 19% rispettivamente.

Le conclusioni? Chi aveva tenuto il diario era riuscito a elaborare meglio l’evento traumatico e trovare la forza per ricominciare,senza lasciarsi sopraffare dallo sconforto o tentando qualche pericolosa “scorciatoia”, come aggrapparsi alla bottiglia, per esempio.

Da allora, il team dello psicologo Pennebaker ha continuato a studiare il fenomeno in lungo e in largo, dal Messico al Belgio per passare dalla Nuova Zelanda, arrivando a confermare tutti gli effetti positivi già riscontrati. Anche se all’inizio scrivere dei propri traumi potrebbe sembrare doloroso e anzi controproducente, a lungo termine i benefici a livello fisico e mentale arrivano eccome. Meno stress, meno depressione, meno ansia, meno rabbia, meno malattie. Insomma, meno tutto.

Detto diversamente, esprimere con il linguaggio i propri disagi emotivi (molto più della musica, del ballo o dell’espressione artistica in generale) è un vero toccasana per la nostra salute. Attraverso la scrittura, siamo in grado di dare in qualche modo un senso alle esperienze negative e traumatiche, inquadrarle in una prospettiva diversa e, di conseguenza, lasciarcele alle spalle molto più facilmente.

Successivi studi, come per esempio questo di Laura King, hanno dimostrato che i vantaggi non si limitano agli eventi negativi e stressanti, ma riguardano anche le aspirazioni e gli obiettivi di vita. In altre parole, chi tiene un diario ha una maggiore comprensione di ciò che vuole ottenere e, di riflesso, avrà anche maggiori probabilità di successo. Inoltre, tenere un diario sulla “gratitudine” (anche se la cosa non mi lascia certo esterrefatto) aiuterebbe le persone a vivere una vita più serena e appagante, per il semplice fatto che le aiuterebbe a concentrarsi di più sugli aspetti positivi e costruttivi del proprio vissuto.

Non è un caso che l’abitudine di tenere un diario dove esprimere i propri sentimenti e progettare il proprio futuro sia comune a molte persone di successo, basti pensare a Mark Twain, Virginia Woolf, Leonardo da Vinci, Thomas Edison, Pablo Picasso, Winston Churchill e Thomas Jefferson, giusto per citare due o tre nomi di peso.

Morale della favola: rispolveriamo il nostro vecchio diario, dotiamoci di una penna (che scriva, possibilmente) e lasciamo che le parole, a poco a poco, pagina dopo pagina, sprigionino il loro potere.

Scritto da
Gianluca Riboni
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Gianluca Riboni

Pensatore e capo tribù NAZAV, personal trainer non convenzionale, ambasciatore dello yoga e della risata, scrittore e blogger incompreso. Scrivo quello che mi passa la testa, nella speranza di lasciare un segno su questo pianeta. Sempre in Arial 11.

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