Fare branding? Parliamone

Fare branding? Parliamone

Che tu lo voglia o no, sei già un brand. Sì, come la Coca Cola. Anche se non hai un logo che ti contraddistingue e non investi triliardi in campagne pubblicitarie.

Di questi tempi, va molto di moda dire che bisogna lavorare sul proprio brand, fare di noi stessi un brand, quasi fosse l’imperativo categorico del nuovo millennio, soprattutto quando si parla di internet e nuove tecnologie.

Ma quale significato nasconde realmente l’espressione “fare branding”, e perché dovremmo iniziare (seriamente) a preoccuparcene?

Hai presente lo scemo del villaggio?

Strano a dirsi, ma anche lo scemo del villaggio è a tutti gli effetti un brand. Così come lo è quella casalinga tanto gentile che, nel villaggio medesimo, ti aiuta a rammendare i calzini e così come lo è quel pensionato un po’ scorbutico che sa dove mettere le mani quando al motore della tua auto viene il singhiozzo.

Gli abitanti di questo fantomatico villaggio, sulla base del loro sapere e della loro esperienza, ma anche dei valori che hanno saputo dimostrare sul campo, si sono costruiti nel tempo una certa reputazione. Sei veloce nei calcoli? La gente ti chiederà aiuto per questioni contabili. Smanetti bene con i computer? Ci metto la mano sul fuoco che verranno a cercare proprio te ogni volta che Windows si impalla.

Lo scemo del villaggio, pur non essendo utile a nessuno, ha trovato comunque una sua collocazione, per quanto non invidiabile, nella mente dei suoi compaesani. In altre parole, anche lui è finito senza volerlo in un apposito “cassetto” mentale. Il solo fatto di incontrarlo, o di pensare a lui, infatti, evoca in noi delle sensazioni ben precise. E dal momento che riusciamo a inquadrarlo in maniera così veloce e schematica, mettendo ordine al caos attorno a noi, ecco che ci sentiamo molto ma molto più tranquilli.

Fare branding, appunto, è entrare in quel cassetto

Sarà anche antipatico e un po’ riduttivo, ma tutti noi, prima o poi, andremo a finire al massimo in due o tre cassetti, molto probabilmente in uno soltanto. Certo, potremo sempre protestare a squarciagola sostenendo, giustamente, che noi siamo molto di più, e ci mancherebbe, che siamo creature sfaccettate e complesse e, in definitiva, “inclassificabili”.

Il problema è che agli altri non importa un fico secco.

Gli altri sono pigri, odiano il disordine e, pur di non impazzire, devono ficcare idee, oggetti e anche persone dentro uno di quei stramaledetti cassetti. Che non sia affatto quello giusto, poco importa, purché ci sia.

A questo proposito, mi viene in mente Mauro Repetto, uno dei fondatori della band musicale degli anni Novanta, gli 883. Ho sentito dire che sia un musicista eccezionale, eppure noi “anziani” ce lo ricordiamo soltanto come quel tizio capellone che ballava sul palco come se fosse stato morso da una tarantola, di fianco al ben più noto e acclamato Max Pezzali.

Non credo sinceramente che l’abbia voluto, ma l’impressione che ci ha lasciato dopo tutti questi anni è proprio quella lì: unanime e impietosa.

Per questo motivo è così importante curare il proprio brand. Se non lo facciamo noi, saremo in balia del caso, oppure lo farà qualcun altro al nostro posto. E potremmo finire dritti, ahimè, nel cassetto sbagliato.

E come si cura, allora, questo brand?

La risposta che va per la maggiore è: curare tutto, tutto quanto, anche l’impossibile. Come imbastisci i tuoi profili sui social, come stringi la mano alle persone, quali amici e quali posti decidi di frequentare, come parli e come ti muovi. Insomma, qualunque aspetto della nostra misera esistenza può contribuire alla costruzione più o meno solida, più o meno duratura, del nostro personalissimo “marchio di fabbrica”.

E se è vero che ogni elemento del puzzle si deve incastrare, essere cioè coerente con l’immagine che vogliamo dare di noi, sarebbe assurdo pensare che ogni nostra azione abbia sempre lo stesso peso.

Torniamo al nostro mitico Mauro Repetto. È vero, molti se lo ricordano così, con i capelli al vento, mentre sfreccia nel deserto a bordo di una decappottabile accanto al più osannato Max Pezzali, ma non per questo la sua carriera si può dire finita. Le sue attività di “branding” hanno semplicemente preso una direzione diversa, più discreta, ma non per questo fallimentare. Non importa se il 99% degli individui pigri di questo mondo lo ritengono una meteora, se le persone giuste, negli ambienti giusti, sono riuscite a conoscere e ad apprezzare il suo autentico valore di artista.

Ecco, per costruire un brand, bisognerebbe fare in modo che alle persone giuste arrivino i messaggi giusti. È inutile incaponirsi su tutti dettagli della tua persona, se poi le principali azioni che mostri al pubblico vanno nella direzione contraria. È inutile lanciarsi in mille campagne auto-promozionali se poi le tue scelte effettive, reali e non manipolabili, riflettono tutt’altra serie di valori. Così come è inutile rincorrere platee stellari o cercare di farsi piacere da tutti, perché è una mission impossible e, molto probabilmente, perfino inefficace.

Un brand che funziona si costruisce facendosi conoscere, attraverso comportamenti coerenti e ripetuti nel tempo, dalle persone che hanno maggiori probabilità di comprenderci, apprezzarci e trarre vantaggio da quello che siamo e che facciamo.

Fare branding non è necessariamente essere sé stessi o diventare per forza degli angioletti immacolati, anche perché esistono brand piuttosto discutibili che, nonostante tutto, continuano a prosperare nelle nostre menti incantate e, soprattutto, pigre. Anche perché, lo dobbiamo ammettere, hanno saputo fare bene il loro lavoro, facendo risplendere i propri lati migliori e nascondendo per bene la polvere sotto il tappeto.

In conclusione

Insomma, essere un brand non significa rinunciare alla propria umanità, trasformarsi in merce o inchinarsi alle dure leggi del mercato. Curare il proprio brand significa innanzitutto capire chi sei e chi vuoi diventare. In secondo luogo, si tratta di capire come farlo a sapere agli altri, quelli che contano davvero per te, entrando finalmente nel “cassetto” che ti meriti.

Prima lo fai, meglio è.

Prima lo fai, e meno probabilità hai di diventare tu lo scemo del villaggio.

Scritto da
Gianluca Riboni
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Gianluca Riboni

Pensatore e capo tribù NAZAV, personal trainer non convenzionale, ambasciatore dello yoga e della risata, scrittore e blogger incompreso. Scrivo quello che mi passa la testa, nella speranza di lasciare un segno su questo pianeta. Sempre in Arial 11.

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